Sinodo sull’Amazzonia, intervista ad Annie Josse, dell’IT di Francia

 

 

Nel mese di ottobre appena trascorso si è svolto a Roma il Sinodo sull’Amazzonia, di cui è appena uscito il documento finale: (testo del documento: https://press.vatican.va › salastampa › bollettino › pubblico › 2019/10/26 )

I mezzi di comunicazione ne hanno parlato poco, perciò ci è sembrato utile intervistare una persona dell’Istituzione Teresiana che ha seguito i lavori del Sinodo un po’ più da vicino. Si chiama Annie Josse e lavora presso la Conferenza Episcopale Francese, occupandosi del servizio alle missioni nel dipartimento di America Latina e Africa.

Abbiamo approfittato della sua presenza nella sede di Roma per farle alcune domande.

 

Perché sei venuta qui in questi giorni del Sinodo sull’Amazzonia?

Sono venuta a Roma perché mi è sembrato importante stare qui qualche giorno durante il Sinodo, per mantenere contatti già esistenti con alcuni dei partecipanti o iniziarne altri, e per vivere più da vicino quello che sta avvenendo in relazione all’Amazzonia, partecipando ad alcune iniziative di “Amazzonia Casa Comune”

 

 

Che cosa è “Amazzonia Casa Comune” e qual è stata la tua esperienza in questi giorni?

“Amazzonia Casa Comune” vuole essere uno spazio di ascolto e interazione fra i padri sinodali, gli attori della vita ecclesiale in Amazzonia e le organizzazioni che li appoggiano. La finalità è “vedere, incontrare, apprendere e scoprire aspetti della realtà di cui tratta il Sinodo”. L’iniziativa è coordinata da un gruppo di istituzioni cattoliche al servizio del Sinodo per la Regione Pan-Amazzonica. Con sede nella chiesa della Traspontina, ha coordinato tantissimi eventi in Roma, come mostre fotografiche, conferenze, presentazione di libri, video, tavole rotonde su diverse tematiche inerenti alla realtà amazzonica. Nell’ambito di Amazzonia Casa Comune sono stati organizzati anche momenti di celebrazione e spiritualità, come la celebrazione martiriale ricordando quanti hanno dato la vita in Amazzonia, la veglia di preghiera all’inizio del sinodo, e la Via Crucis per le strade di Roma il giorno 19.

L’esperienza per me è stata breve, solo cinque giorni, però molto buona e intensa! Per ascoltare, vedere, addentrarmi un poco nella realtà amazzonica tanto diversa, contattare organismi presenti lì. Per conoscere gente impegnata le cui testimonianze stimolano e provocano al cambiamento. Quando senti un vescovo raccontare che, per conoscere la sua diocesi, va ogni anno a vivere per un mese con una comunità indigena in mezzo alla selva, ti interroghi su “lasciare le zone di confort” di cui parla Francesco…

 

Quali sono, a tuo parere, le istanze dei popoli dell’Amazzonia nei confronti della Chiesa e del mondo occidentale?

Direi che la prima è che prendiamo coscienza della loro esistenza, che non li dimentichiamo. Che rispettiamo le loro culture e modi di vivere, con vero rispetto e non con condiscendenza. Che non consideriamo il loro territorio come un’immensa riserva di ricchezze disponibili per il nostro proprio uso da saccheggiare così come ci conviene. Che non roviniamo il loro ambiente naturale di vita, la selva, con la quale si sentono strettamente uniti. E riguardo alla Chiesa, come dice l’Instrumentum laboris del Sinodo, che sappiamo stare, non solo passare: “stare con quelli con cui nessuno vuole stare”.  La Chiesa, in Amazzonia come in altri luoghi, deve semplicemente stare con, vivere l’Incarnazione, che molte volte significa abbassarsi, abbandonare uno status, perché non possiamo negare che in molte occasioni si è stati dalla parte del potere, della ricchezza, del colonialismo. Mi sembra che anche si aspettino dalla Chiesa che sappia essere voce di quelli che non hanno voce, di cui non si tiene conto a livello politico-sociale, che riconosca la ricchezza spirituale e la saggezza che portano dentro.

 

Come vedi la sfida della inculturazione della fede in quelle realtà?

Inculturarsi entra in un certo modo nel DNA della fede, infatti già molto presto il modo di annunciarla dovette adattarsi alla cultura romana, la fede cristiana non è nata romana! Però dopo venti secoli ce lo siamo dimenticato. In alcune culture meno razionaliste e più simboliche, occorre prestare molta attenzione a tutti i gesti e simboli. Ciascuno deve poter esprimere la propria fede nella propria cultura e nella propria lingua. Una delle sfide di questo sinodo è che la Chiesa in Amazzonia arrivi ad avere un volto amazzonico. E quasi direi che tutta la Chiesa è chiamata ad avere un volto amazzonico: cioè a prendersi cura della grande casa comune che è la nostra terra, a sentirsi in relazione con tutti gli esseri creati e la creazione, a vivere con meno, a privilegiare i più piccoli.

 

Che cosa è il Patto delle catacombe per la Casa Comune?

Il Patto delle catacombe fu firmato nella catacomba di Santa Domitilla da un gruppo di 42 vescovi, in maggioranza americani, il 16 di novembre del 1965, poco prima della fine del Concilio Vaticano II. L’impulso fu dato da Dom Helder Camara (Recife, Brasil) e Mons. Charles-Marie Himmer (Tournai, Bélgica). Volevano una Chiesa povera e per i poveri, e si impegnavano con quel patto a vivere una vita austera, a rinunciare ai segni esterni di ricchezza, ai privilegi, a coltivare la relazione con i potenti. Si impegnavano inoltre a fare tutto il possibile a favore della giustizia sociale.

Quello che ora si chiama il nuovo Patto delle catacombe lo hanno appena firmato il 20 ottobre, nella stessa catacomba di santa Domitilla, un gruppo di partecipanti a questo sinodo, vescovi e altri, ispirandosi a quello del 1965. Si chiama “Patto delle catacombe per la casa comune: per una Chiesa con volto amazzonico, povera e serva, profetica e samaritana”. Si impegnano a difendere la selva amazzonica e i popoli che la abitano con le loro lingue, culture, modi di vita e spiritualità, e in favore di una ecologia integrale nella quale tutto è interdipendente. Rinnovano l’opzione preferenziale per i poveri e particolarmente per i popoli indigeni. Si impegnano a riconoscere i ministeri già esistenti nelle comunità e la diaconia reale delle donne, a passare da una pastorale di visita a una pastorale di presenza, ad assumere uno stile di vita semplice e solidale.

Il cardenal Hummes, che presiedeva l’eucarestia nella catacomba, portava per l’occasione la stola di Dom Helder.

 

Quali son le tue aspettative rispetto a questo Sinodo? Come potrà incidere nelle Chiese di Europa?

Spero che questo sinodo aiuti tutta la Chiesa a una presa di coscienza ecologica, nel senso della ecologia integrale, una ecologia in cui la persona, le comunità, formano parte dell’ambiente e sono un elemento della creazione relazionato con gli altri. La crisi dell’Amazzonia dovrebbe invitarci tutti a rivedere i nostri modi di consumo. Dobbiamo prendere sul serio la Laudato Si’ e viverla concretamente, dobbiamo dimostrare che esistono altri modelli diversi dal modello attuale.

Il Sinodo dell’Amazzonia, con una maggiore partecipazione di laici e di donne, sarebbe una buona immagine del cammino sinodale che dovrebbe fare la Chiesa del secolo XXI: che la Chiesa che sta in Europa si lasci arricchire dalla Chiesa che sta in altre parti del mondo. Anche in questo livello, siamo interdipendenti e abbiamo bisogno gli uni degli altri.

                                                                      Daniela Corinaldesi

                                                   Foto: Vida Nueva Digital