Beati gli operatori di giustizia

Giustizia è la parola forse più inflazionata dei nostri tempi: tutti parlano di giustizia sociale, tutti invocano la giustizia come apportatrice di pace, ma la storia antica e recente ci ha sempre dimostrato che è proprio appellandosi alla giustizia che popoli e nazioni continuano ad affrontarsi in un susseguirsi di lotte, di guerre e di sangue che hanno devastato il mondo e sacrificato milioni di uomini. Con questo non voglio assolutamente dire che la giustizia sia un nome vano: voglio far risaltare solamente come, in nome della giustizia, gli uomini possano ancora dividersi e combattersi e che certamente la giustizia da sola non arriverà a colmare tutte le lacune e a sciogliere tutti i problemi che travagliano l'uomo e la società.

Giustizia è un concetto filosofico e giuridico, presente già nel mondo antico.
Platone, nel Protagora, narra che gli  dei crearono l'umanità, ma che gli uomini non riuscivano a vivere in pace. Allora Zeus inviò Ermete affinché portasse agli uomini  il rispetto per gli altri e la giustizia, i soli beni in grado di garantire lo stabilirsi di rapporti di armonia e di amicizia all'interno delle comunità. Già Omero (VIII sec. a.C.), nell'Odissea, aveva definito i ciclopi, che non conoscevano la giustizia e non si interessavano minimamente gli uni degli altri, dei selvaggi, fuori della comunità degli uomini. Aristotele, nell'Etica, definisce la giustizia la regina delle virtù, il principio architettonico dello Stato. Ma c'è di più: gli antichi filosofi greci avevano capito che il diritto non deve fermarsi alla  semplice e pura attuazione della giustizia, ma deve tendere a un fine più alto, all'amicizia fra gli uomini. Gli stoici, infatti, considerando l'uomo come cittadino del mondo e quindi titolare di diritti naturali che gli competono dovunque egli sia, indipendentemente dalle leggi  positive dei singoli Stati, affermano che non dobbiamo  più vivere separati in città e popoli, differenziati dai vari modi di concepire la giustizia, ma considerare invece tutti gli uomini come membri di una sola città e di un solo popolo.
Queste idee cosmopolitiche dello stoicismo si adattarono molto bene alla mentalità romana e Cicerone (103-43 a.C.) riprende e sviluppa le idee della morale stoica. La filantropia greca diviene humanitas , la consapevolezza cioè di avere una comune identità, in quanto tutti apparteniamo alla comune natura umana. L'humanitas, come amore degli uomini è la perfezione della tendenza sociale: il diritto non si può fondare  sulla sola autorità o imposizione dello Stato e nemmeno sulla sola giustizia, anche se questa può preparare e favorire la pacifica convivenza tra gli uomini. E' su un piano più alto, quello dell'amore e dell'amicizia, che si realizza. La giustizia, da sola, non è sufficiente per una buona vita sociale: non basta il rispetto della dignità di ogni uomo e il riconoscimento dei suoi diritti, ci vuole anche responsabilità verso i più bisognosi e i più deboli, equità soprattutto nel punire, promozione del bene comune, benignità (buona disposizione d'animo) e liberalità (fare il bene).
I Greci, e in particolare i Romani, avevano cioè intuito che la convivenza e le relazioni umane non potevano basarsi soltanto sul diritto, nel dare a ciascuno ciò che gli è dovuto. La famosa frase summum ius, summa iniuria ci dice che a voler spingere la giustizia fino alle estreme conseguenze, c'è pericolo di giungere alle peggiori ingiustizie. Da qui l'importanza dell'equità, che va in cerca di quello che sta fuori e al di sopra della legge stessa e che ci obbliga, in certi casi, a fare eccezione alla legge o a moderare il rigore della legge e a tener conto delle circostanze personali e attenuanti. L'equità, quindi, tempera la giustizia facendola esercitare giustamente, cioè umanizzandola, facendoci vedere nell'altro non un semplice individuo, ma una persona.
Ma tutti questi nobili principi, con le affermazioni di uguaglianza, di fraternità e di amore universali proclamati dai filosofi greci e romani rimangono fredde formule di scuola, patrimonio di menti elette, che non riescono a cambiare l'ordine sociale costituito, fondato su carenze di amore e di giustizia.

E' con il cristianesimo che le cose cambiano totalmente. Gesù narra questa parabola (Mt. 20,1-16):


"il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Accordatosi con loro per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla piazza disoccupati e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna; quello che è giusto ve lo darò. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque ne vide altri che se ne stavano là e disse loro. Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi? Gli risposero: Perché nessuno ci ha presi a giornata. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna. Quando fu sera il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e dà loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi pensavano che avrebbero ricevuto di più. Ma anch'essi ricevettero un denaro per ciascuno. Nel ritirarlo però mormoravano contro il padrone dicendo: questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo. Ma il padrone rispondendo a uno di loro disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse pattuito con me un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? Così gli ultimi saranno primi e i primi ultimi."


I lavoratori della prima ora accusano il padrone della vigna di ingiustizia e, infatti, il modo di agire di Dio non è giustificato sul terreno della giustizia. Lo scandalo è provocato dalla sua bontà. Qui sta la forza rivoluzionaria del cristianesimo, che non fu combattuto per i suoi dogmi, ma per le sue istanze sociali; non fu combattuto per il suo amore a Dio, ma per il suo amore all'uomo. Infatti la civiltà cristiana si distingue per il segno dell'amore che non fa differenza di persone, che non conosce esclusioni, odii e divisioni in uomini superiori e inferiori, ricchi e poveri, liberi e schiavi. La vera civiltà si misura dal grado di amore, che è innanzitutto esigenza di giustizia, riconoscimento pratico della dignità e dei diritti della persona umana a livello individuale e sociale.
L'amore è la legge delle leggi e non è più possibile, nel mondo di oggi, dopo l'avvento di Cristo, il puro diritto, come non è più possibile la pura economia, se si vuole affermare il primato sacrosanto e inviolabile dell'uomo come persona.
S. Paolo (Rom. 13,8-10) dice: "Nulla tu devi agli altri se non amarli, perché chi ama il prossimo ha adempiuto la legge…Se esiste un altro comandamento esso è già incluso in questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Poiché l'amore verso il prossimo non fa nulla di male. Dunque pieno compimento della legge è l'amore."
Questa affermazione "l'amore è pienezza della legge", da un lato significa che il diritto è incompleto e inadeguato poiché, se abbandonato a se stesso, alla sua logica peculiare e naturale, non ha la capacità di raggiungere la propria pienezza e verità. Ma da un altro lato questo testo ci indica la dignità, il valore strutturale del diritto poiché è il diritto, e non un'altra cosa, che trova la propria pienezza nell'amore.
Ancora S. Paolo (I Tim. 1,5) ci dice: "Sono convinto che la legge non è fatta per il giusto, ma per gli iniqui e i ribelli, per gli empi e i peccatori, per i sacrileghi e i profanatori, per i parricidi e i matricidi, per gli assassini, i fornicatori, i pervertiti, i trafficanti di uomini, i falsi, gli spergiuri e per ogni altra cosa che è contraria alla sana dottrina secondo il vangelo della gloria che mi è stato affidato".
Il giusto non ha bisogno della legge, ce l'ha dentro di sé e perciò la rispetta e la mette in pratica. Sono i non giusti, i trasgressori che ne hanno bisogno e, infatti, per secoli, la giustizia si è identificata con la repressione dei delitti, con la soluzione giudiziaria delle contese private, con la funzione di polizia: cioè, tutto ciò che poteva garantire la sicurezza, l'ordine, la tranquillità dei cittadini.

Non c'è dubbio che la difesa sociale sia un interesse primario della società che ha il diritto e l'obbligo di tutelarsi nei confronti di coloro che in qualche modo minacciano la sua stessa sopravvivenza, ponendo in essere azioni contrarie alle norme sociali, attentando alla vita o ai beni delle persone che di tale società fanno parte.
Da questo diritto-dovere della società nasce il carcere, il luogo istituzionale dove si imprigionano i trasgressori e si separano dalla società per impedir loro di nuocere ancora. E' un atto di giustizia, il minimo di garanzia per la sopravvivenza della società e la tranquillità dei cittadini. Ma è proprio guardando alla realtà del carcere che possiamo capire tutti i limiti della giustizia quando essa non è illuminata e temperata dall'amore.


Può essere giusto, per il bene della società, privare gli uomini colpevoli di trasgressioni della loro libertà, ma dovrebbe essere fatto con il massimo possibile di civiltà, di umanità, di speranza. La pena invece è talvolta inutile, gratuita, costosa; è una pena che colpisce anche gli innocenti (i familiari del colpevole); è una pena incruenta che, però, sul piano psicologico, assomiglia tanto alla legge del taglione.
Chi opera in un carcere è continuamente combattuto fra una confusa emozione di solidarietà, quando guarda l'aspetto oppressivo dell'istituzione, e un forte sentimento di rigetto e di condanna quando guarda i delitti, spesso orrendi, di cui tali persone si sono macchiati. Certamente il cristiano ha il dovere di amare il prossimo, sempre e chiunque esso sia. Il prossimo non si sceglie, si accetta perché non è una astrazione filosofica o letteraria, ma una realtà concreta che è di fronte a noi e che non sempre ha le caratteristiche che ameremmo trovare in essa. Non esiste un tipo di prossimo fatto su misura.
Ed è difficile anche superare l'ideologia della irrecuperabilità e rendersi conto che anche il detenuto è un essere umano, modificabile di giorno in giorno, di anno in anno, capace cioè di peggiorare o di migliorare, esattamente come succede a tutti gli uomini liberi. E per combattere l'ideologia della irrecuperabilità bisogna instaurare la forza rivoluzionaria della speranza, che è la forza dei veri operatori di giustizia.
L'uomo della speranza, infatti, conosce la propria realtà e pur sapendola così difficile e complessa continua a sperare: perciò diventa forza della storia. Per chi spera non esiste l'utopia, o meglio sa vivere l'utopia. L'uomo di speranza si nutre di utopia e lavora e lotta e soffre per tradurla in realtà.

Guai all’uomo che pretende di vivere di sola giustizia e ancor più guai al mondo se tutto avvenisse secondo giustizia. La vera giustizia  viene dalla bontà. Soltanto quando l’uomo ha imparato, alla scuola della carità di Dio, a vedere il prossimo come un altro se stesso, egli è pronto per la giustizia. Per poter essere giusti bisogna imparare ad amare.
La giustizia è rispetto, ordine, misura destinata ad instaurare rapporti di diritto tra le persone, i gruppi e le nazioni, è porci in modo giusto nel posto che occupiamo, è dare ad ognuno il posto che gli compete secondo il suo valore e la sua dignità. Altrimenti si commette una ingiustizia della quale si è responsabili. La giustizia include un diritto esigibile, se occorre anche con la coercizione, con la forza.
La giustizia, infatti, viene rappresentata con la bilancia in mano e con la benda agli occhi; per la giustizia conta solo la bilancia, e la benda sta ad indicare che essa terrà conto solo della pesata senza lasciarsi impressionare da altre considerazioni. Vuole essere imparziale e non vuole fare personalismi.
Io vi dico che se la vostra giustizia non sarà maggior di quella degli scribi e dei farisei (troppo legalistica) non entrerete nel Regno dei cieli” (Matteo 5, 20). Per questo bisognerà avere fame e sete di giustizia.

Il rapporto tra gli uomini può costituirsi in virtù di tre  vincoli essenzialmente diversi: la forza, la giustizia e l’amore.
La forza dice: quello che è tuo è mio: schiaccia ed elimina il tu.
La giustizia dice: quello che è mio è mio, quello che è tuo è tuo: separa l’io ed il tu, dando il massimo rilievo alla pluralità e autonomia.
L’amore dice: quello che è mio è tuo: l’io ed il tu si identificano.
Per questo alcuni Santi padri chiamano ”tristi parole” il mio ed il tuo, in quanto nell’economia del Vangelo tutto è nostro,  come ci insegna la preghiera del Padre Nostro.
Giovanni Paolo II ( Enc. Dives in misericordia, n 12):
L’esperienza del passato e del nostro tempo dimostra che la giustizia da sola non basta e che anzi può condurre alla negazione di se stesso, se non si consente a quella forza più profonda che è l’amore, di plasmare la vita umana nelle sue varie dimensioni”.
La prima, la migliore prova di amore per il prossimo è quella di usargli giustizia, di compiere prima di tutto il nostro dovere di giustizia e di rispettarne integralmente i diritti. L’amore suppone la giustizia: la supera ma non la sostituisce anzi la contiene come sua espressione prima, come suo momento esenziale. Allora possiamo dire che avere fame e sete di giustizia è la base dell’amore. Prima di parlare di amore, infatti, bisogna realizzare la giustizia; bisogna dare a ciascuno il suo se si vuole arrivare a dare il nostro e, se necessario, anche noi stessi.

Nel nostro mondo la giustizia è calpestata e perciò la pace è compromessa. Paolo VI diceva:
La pace vera deve essere fondata sulla giustizia, sul senso della intangibile dignità umana, sul riconoscimento di una incancellabile e felice uguaglianza fra gli uomini, sul dogma basilare della fraternità umana. Cioè del rispetto, dell’amore dovuto ad ogni uomo perché uomo, perché fratello: fratello mio, fratello nostro.”
Il nostro mondo è sconvolto dalle guerre, dallo sfruttamento economico e sociale dei più deboli, dalla continua violazione dei diritti umani. Ha bisogno di operatori di giustizia, persone che in solidarietà attiva con tutti coloro che vogliono promuovere la pace e la giustizia nel mondo, operino per rafforzare il rispetto della persona e salvaguardare i valori autentici dei popoli e delle nazioni.
Per creare rapporti giusti tra gli uomini ed i popoli non basta lo studio approfondito di tutti i problemi politico-economico-sociali, occorrono soprattutto uomini nuovi che amino la giustizia con lo stesso amore forte e perseverante con cui l’ama Dio. Fondamento reale di un  ordine sociale secondo giustizia non sono le leggi astratte della giustizia e nemmeno quelle della carità, ma un manipolo di uomini che amino talmente la  giustizia da riuscire con la loro opera molteplice a farla diventare costume, modo di sentite e di volere della comunità intera a cui appartengono. Occorrono “operai della giustizia”, come li definisce Giovanni XXIII nell’enciclica Mater et Magistra; operatori di giustizia, uomini assetati ed affamati di giustizia. Avere fame e sete esprime un desiderio forte, violento, profondo, un bisogno potente, irrefrenabile. Ma la fame, la sete sono mancanza. È affamato e assetato di giustizia chi non ha giustizia: ogni realizzazione della giustizia è parziale, limitata. La giustizia è sempre davanti, nel futuro di Dio, per questo prima ho parlato di speranza.
Le reazioni dell’uomo davanti a questa assenza di giustizia possono essere diverse. C’è la reazione di chi si rassegna: non c’è niente da fare, non sarò certo io a cambiare il mondo e a renderlo più giusto. C’è poi la reazione di chi non ce la fa più a sopportare l’ingiustizia e protesta: e c’è chi protesta anche con violenza, dando sfogo alla rabbia accumulata. E infine c’è chi vuole che la giustizia funzioni concretamente a tutti i costi e la vuole imporre con la forza. Tutto ciò descrive la profonda impotenza dell’uomo davanti alla giustizia.
E allora che dobbiamo fare?
Allora si tratta di incarnare nella propria vita due attitudini diverse:


-    una che affonda le sue radici nell’utopia, è quella di chi sa che la  giustizia è un dono di Dio e che solo Lui può colmare la nostra fame e la nostra sete, che solo Lui può realizzare quei”cieli nuovi e terra nuova” dove la giustizia trionferà
-    l’altra invece, più pragmatica, è quella di chi è convinto che la giustizia, anche se in modo imperfetto e frammentario, si può realizzare già oggi nella nostra storia, può divenire realtà anche nell’agire degli uomini che, personalmente e collettivamente si impegnano per costruirla.


Basta superare la tentazione di escludere gli altri dalla nostra vita, soprattutto i diversi.
C’è un bellissimo passo di Isaia (56, 1-3) in cui Dio parla in questi termini:


Rispettate il diritto,
agite con giustizia
Io sto per manifestare
la mia salvezza e la mia giustizia.
Beato l’uomo che tiene in considerazione
e mette in pratica le mie parole,
che rispetta il giorno del Sabato,
che evita di compiere il male.
Uno straniero che ha accettato il Signore
Non dovrebbe più dire:
‘Il Signore mi esclude dal suo popolo’;
e un eunuco:
‘Sono soltanto un albero secco’.”


Basta spezzare il proprio pane con gli altri.
Basta non considerare le cose proprie gelosamente come proprie: non ci si può limitare a non rubare la roba d’ altri, ma bisogna essere disposti a dare a chi ne ha bisogno anche la roba nostra.  Basta condividere.
Anni fa,  sulla rivista “Missione Oggi” comparve un servizio sulle Beatitudini intitolato “La Beatitudini, sinfonia dei folli”.
È vero le Beatitudini sono una follia che solo i folli possono intendere. E ci vuole non poca follia per capire che identificarsi con il Cristo che muore sulla Croce non significa accettare passivamente la sofferenza, l’ingiustizia, ma significa identificarsi con gli insegnamenti e le azioni che hanno condotto Cristo sulla Croce.
Significa essere presenti sotto tutti “quei calvari dove si consumano sacrifici di innocenti, dove l’uomo viene deturpato, reso senza volto e senza nome. C’è solo l’imbarazzo della scelta, perché nella sua storia l’uomo ha moltiplicato i calvari alzandoli ad ogni latitudine: nei luoghi della povertà e dell’oppressione, nelle prigioni, negli ospedali, nei campi di battaglia, nelle bidonvilles che stanno ai margini delle grandi metropoli, nelle terre portate via alla gente e sacrificate alle grandi imprese.”
E allora capiamo che per essere operatori di giustizia bisogna entrare a far parte della schiera dei folli, molti o pochi che siano, e imparare a suonare con loro la sinfonia dell’amore.


Anna Paola Bini

Roma 27/08/2013