Contributi a: DEMOCRAZIA: un valore da ricuperare.
Democrazia e Persona.
Esaminiamo brevemente il valore della Partecipazione sul piano politico-sociale e il ruolo della Persona con i suoi valori portanti.
La Partecipazione democratica implica comportamenti e azioni di natura politica, sociale ed economica in grado di coniugare il principio di libertà con il principio di uguaglianza in maniera responsabile e coerente: è la buona utopia a cui tende la Persona che antropologicamente sente di vivere e collegarsi a una comunità sociale democratica. La Persona sente intimamente la partecipazione, la socializzazione.
Essa responsabilmente si rende conto che la Democrazia è una forma di convivenza e di governo difficile da gestire: richiede procedure particolari e coinvolgimento costante, attivo e decisioni condivise. È sempre attesa da minacce quali: la prevaricazione, la demagogia, la “ dittatura delle maggioranze”, l’arroganza di poteri costituiti. Certamente si possono evitare rischi e violenze fisiche e morali richiamando valori universali, che ritroviamo, ad esempio, nella formazione di sant’ Agostino ( proteso a stimolare l’uomo verso un dialogo costante senza pregiudizi e a stigmatizzare l’arroganza e la crudeltà dei potenti), nella visione di Rousseau (intento a indicare la strada per una educazione a uno spirito libero e repubblicano – popolare), nel pensiero di Maritain, (assertore di un umanesimo integrale e di una concezione politica che coniughi sviluppo economico e rispetto della persona ).
L’Enciclica “ Pacem in terris” di papa Giovanni XXIII, nel 1963, interpretando i sommovimenti culturali e sociali del tempo, sottolinea “la necessità dei diritti umani, della democrazia dei comportamenti”; ribadisce infatti il concetto di dignità personale, di rispetto reciproco, di cooperazione pacifica, di autodeterminazione dei popoli alla ricerca della propria libertà e indipendenza. Il papa si richiama agli ideali e ai valori della Democrazia “classica”: uguaglianza, libertà, emancipazione, partecipazione, solidarietà. Per conferire concretezza a tali valori risultano di capitale importanza le fasi della programmazione e della decisione attraverso il “controllo“ e il “consenso“ virtuoso e non fuorviante. Sono sempre in agguato ”rappresentanze di routine” o interessi di parte che danno vita a “false democrazie” come ci riferisce il politologo Giovanni Sartori. In un contesto a noi contemporaneo dobbiamo ripensare alla Democrazia configurandola quale politica in cui “ trovano conciliazione e mediazione esigenze come quelle di libertà e uguaglianza”. Il filosofo Bergson ci indica un cammino: “la fratellanza universale”
Sostenute da tale visione, Democrazia e Persona devono procedere parallelamente in nome di un umanesimo rinnovato per realizzare concretamente e compiutamente ”l’età dei diritti” (vedi Bobbio), e una società interculturale in cui a prevalere siano il senso della pacificazione, del rispetto, della tolleranza, della diversità, della solidarietà: valori al centro della attenzioni di papa Giovanni Paolo II° nella sua enciclica “ Laborem exercens” del 1981.
Dovrebbero essere, i nostri, tempi maturi per pianificare interventi concreti, per alleviare sofferenze e ingiustizie, per dare valore e sostanza al bene comune.
Già Alexis De Tocqueville (1805 -1859) nei suoi saggi politici sollecitava i suoi contemporanei a coltivare l’autonomia di giudizio, spronandoli a non accontentarsi degli atti esteriori e delle apparenze democratiche, ma verificare costantemente la condotta politica e morale degli amministratori.
Giuseppe Calì, 27 dicembre 2014
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Gustavo Zagrebelsky in questo suo trattato: La democrazia di Barabba, mi ha letteralmente entusiasmato da assumerlo letteralmente, riducendolo solo per ragioni di spazio. È stupendo e rispecchia lo stile della nostra realtà.
Il processo e la passione di Gesù riletti alla luce dell'attuale crisi delle istituzioni e delle regole democratiche. Per una visione critica della democrazia.
La democrazia pare aver guadagnato alla sua causa, in Italia, perfino l'ultimo partito, che le resisteva in nome della fedeltà alle sue conclamate radici totalitarie. Tuttavia è oggi diffuso tra molti un sentimento di incertezza. Possiamo pensare che non si tratti che di un abbaglio, e che la nostra democrazia non abbia mai goduto migliore salute. Ma se questo non crediamo, è forse perché si avverte che le stanno attorno, oltre ai veri, molti falsi amici.
Nell'età della democrazia i suoi nemici non si possono mai presentare come tali. Devono mascherarsi da democratici. Per questo ci può essere e c'è molta ambiguità e diffidenza nella cittadella della democrazia. La domanda discriminante è: la democrazia è un fine o è solo un mezzo? Chi la ritiene un fine la serve, chi soltanto un mezzo se ne serve finché gli serve. La distinzione è tutta qui, chiara in astratto ma oscura in concreto. In concreto, il falso amico è infatti sempre l'avversario. L'accusa che viene lanciata è sempre ritorta. Un tempo veniva palleggiata tra la Democrazia cristiana e il Partito comunista. Oggi, con il sistema maggioritario imperfetto, fra chi sta di là e chi sta di qua. E coloro che stanno al centro la rivolgono simultaneamente a destra e a sinistra, candidandosi come unici autentici difensori della democrazia.
Non possiamo pensare che la disputa sia oziosa, che si tratti di una di quelle controversie prive di contenuto che alimentano la lotta fra i partiti con lo scopo di impressionare il pubblico. La questione è reale, e la posta in gioco è grande. Ma per renderla effettivamente intelligibile, per sottrarla al moralismo istituzionale un terreno su cui non si è mai costruito niente e si è sempre solo fomentata la confusione abbiamo bisogno di categorie chiare e precise. A questo fine possiamo servirci del processo a Gesù, come ci viene narrato dai Vangeli. Esso rappresenta un simbolo tragico della democrazia.
In Palestina sotto il governo del procuratore Ponzio Pilato si era determinato un conflitto tra Lui, procuratore romano della Giudea, e il Sinedrio, la massima autorità ebraica. La posta in gioco era la vita di Gesù. Per uscirne Pilato si appellò al popolo. Tra l'imposizione di una decisione unilaterale, la liberazione cioè di Gesù con un atto d'imperio e la resa ai notabili del Sinedrio, Pilato scelse un'altra possibilità: aprì una procedura «democratica» appellandosi al popolo. La decisione finale fu presa nel crescendo impressionante di fanatismo che Marco, racconta nel modo più vivido: La moltitudine gridando cominciò a domandare che facesse come sempre aveva fatto e Pilato rispose loro dicendo: «Volete voi che io vi liberi il re dei Giudei?». Riconosceva infatti bene che i principali sacerdoti lo avevano messo nelle sue mani per invidia. Ma i principali sacerdoti incitarono la moltitudine a chiedere che piuttosto liberasse loro Barabba. E Pilato, rispondendo, da capo disse loro: «Che volete dunque che io faccia di colui che voi chiamate il re dei Giudei?». Ed essi gridarono di nuovo: «Crocifiggilo!». E Pilato disse loro: «Ma pure, che male vi ha fatto?». Ed essi vieppiù gridavano: «Crocifiggilo!».
Che cosa si può vedere in questo grido della folla? A prima vista un argomento contro la democrazia.
Per allontanare lo scandalo di questo grido, possiamo solo rifiutare il contenuto di valore del dilemma che la narrazione evangelica ci presenta. In breve, dobbiamo trovare equivalenti Gesù e Barabba, e indifferente la vita dell'uno o dell'altro. Per coloro che credono il Figlio di Dio e re dei Giudei come testimone della Verità assoluta, questo plebiscito è certamente un serio argomento contro la democrazia.
Possiamo accettare questo argomento solo a una condizione. Di essere tanto sicuri della nostra verità politica da imporla, se necessario, con lacrime e sangue. Di essere tanto sicuri della nostra verità quanto il Figlio di Dio era sicuro della propria.
Un aspetto saliente del comportamento di Gesù nel processo a suo carico, tanto di fronte al Sinedrio che ad Erode e infine a Pilato, è il suo silenzio. Un comportamento così diverso da quello tenuto da Socrate. Il quale non solo non tacque, ma si difese con eloquenza nella sua apologia. Di fronte all'accusa Gesù, dunque, tace. Perché? L'interpretazione più diffusa è questa: Gesù è la personificazione della Verità. La Verità o la si accetta o la si combatte. La Verità dogmatica non può essere sostenuta con argomenti, perché questi possono essere ribattuti con altri argomenti, dunque relativizzati. «Chi non è con me è contro di me», dice Gesù nel Vangelo di Matteo. La Verità divide il campo a metà: per questo Gesù tace. Il suo silenzio è una testimonianza dell'integralità della Verità.
Dunque Gesù come testimone della Verità non si difende perché non può accettare il processo. La Verità glielo impedisce, anzi lo costringe addirittura a cooperare con i suoi accusatori. I Vangeli narrano che dopo il grande miracolo della resurrezione di Lazzaro il Sinedrio aveva deciso, per bocca di Caifa, che la morte di un solo uomo, Gesù, era necessaria per salvare la nazione intera.
Il Sinedrio agiva poi anche per ragioni religiose. Esso doveva difendere il dogma, mantenere integra l'identità religiosa monoteista del popolo d'Israele. Del resto, dogma e potere si intrecciavano, allora come sempre: è difficile dire se il dogma serva al mantenimento del potere o viceversa, ma certo sono strettamente interrelati. Sotto questo punto di vista, Gesù appariva non solo più il sobillatore delle folle, ma il falso Messia, un seduttore delle folle, che le allontanava dall'ortodossia.
E Gesù era giunto a proclamare, con il massimo orgoglio, che il sabato serve all'uomo, non l'uomo al sabato. Egli si era dunque collocato al di sopra del precetto.
Ma soprattutto e questa è forse stata la ragione dogmatica della condanna di Gesù da parte del Sinedrio Gesù rappresentava una contraddizione palese del nucleo fondamentale della religione ebraica, il monoteismo. Gesù aveva detto: «Io e il Padre siamo la stessa cosa». E gli era stato ribattuto che, essendo uomo, egli si proclamava Dio.
Ecco che Pilato tenta allora una mediazione. Così spera di accontentare il Sinedrio facendo flagellare Gesù. E lo presenta poi alla folla, credendo che essa fosse così soddisfatta. Non aveva capito che all'autorità ebraica non interessava la punizione di Gesù ma la sua morte. La mediazione dunque non poteva riuscire.
Dal punto di vista non della rassegnazione ma dell'opportunismo, Pilato è un simbolo dell'adattamento interessato, un simbolo altamente rappresentativo di una fauna politica molto diffusa, sempre capace del più spregiudicato camaleontismo per restare sulla cresta dell'onda.
Per analizzare questo paradosso, conviene dunque spostare l'attenzione sui caratteri della folla decidente. Il primo aspetto che spiega questa sorta di coincidentia oppositorum consiste nel fatto che alla folla non è stata riconosciuta un'autorità; essa è stata usata da una parte e dall'altra e ne è stata sfruttata piuttosto la forza. Per entrambe le parti, Sinedrio e Pilato, si trattava di scatenare il popolo per vincere gli ostacoli. Il Sinedrio intendeva superare i dubbi di Pilato. Il quale invece cercava di salvare Gesù a danno di Barabba, mettendo il Sinedrio di fronte all'evidenza della scelta imposta dalla folla.
Quella folla era chiamata soltanto a pronunciarsi su quel che le veniva richiesto. Essa non avrebbe potuto uscire dal dilemma propostole. Non avrebbe potuto decidere, per esempio, per la vita o per la morte e di Gesù e di Barabba. Né avrebbe potuto pretendere di farsi valere in altre questioni. In termini diversi, non era una forza agente, ma semplicemente reagente.
Essa non era padrona, per usare una formula di oggi, della propria agenda. Se avesse preteso di diventarlo, l'autorità del Sinedrio e di Pilato sarebbe stata distrutta. Se il popolo capace di agire è il popolo della democrazia e quello che subisce è il popolo delle autocrazie, quello chiamato soltanto a reagire è il popolo di quale forma di governo? Forse, conformemente all'etimo, il popolo della demagogia.
C'è un secondo aspetto della convergenza Pilato Sinedrio: l'appello al popolo viene concepito come istanza decisiva. Vox populi, vox Dei: era come se ad essa si fosse riconosciuta l'infallibilità. Questa folla era dunque adulata. Ogni volta che al popolo viene attribuita la facoltà della decisione in ultima istanza, si può essere sicuri che esso viene usato. Infatti, se al popolo si dicesse: «Puoi decidere, ma la tua scelta può non essere la migliore», allora e solo allora il popolo si vedrebbe riconosciuta la sua autonomia di decisione.
In terzo luogo, quella folla era sobillata dal Sinedrio. Era dunque una folla guidata, sotto tutela. Quella era poi una folla ondivaga, passata nel giro di pochi giorni dagli osanna ai crucifige. Era così perché incapace di un orientamento proprio, e dunque era esposta alle influenze esterne. Di fronte al miracolo, vuole proclamare Gesù re; quando Gesù rifiuta di compiere miracoli ed è ridotto a una larva umana, si ritorce contro di lui e lo vuole crocifiggere.
La conclusione è dunque che la folla è stata usata perché aveva queste caratteristiche. Non un popolo decidente, ma una massa messa in movimento. Credeva di decidere, ma in realtà decideva quello che altri avevano disposto per lei. Se le è stata data la parola è solo per sostenere la verità del Sinedrio o gli interessi di Pilato: uno scontro fra due autorità autocratiche nel quale il ricorso alla folla è solo un'arma nelle mani di tali autorità. Se vogliamo parlare di «democrazia» dobbiamo sottolineare che questa ne è la forma corrotta. 0 meglio, una forma solo apparente, cui possono aderire tanto coloro che sono vincolati al dogma quanto coloro che si ispirano al potere.
Entrambi praticano concezioni puramente strumentali della democrazia. Entrambi sono falsi amici della democrazia perché intendono solo farsi sgabello della folla.
A queste due concezioni si deve opporre la visione critica della democrazia. Essa è quella di coloro che non si ispirano né alla verità né allo scetticismo. La loro etica è semmai quella della possibilità. In ogni situazione esistono possibilità positive e altre negative. Chi si ispira a una versione critica della democrazia abbandona tanto la sicurezza di chi crede di disporre della verità quanto l'indifferenza di chi crede che una cosa valga l'altra. La democrazia critica non guarda avanti ma si guarda attorno, è sempre pronta a tornare sulle proprie decisioni, per migliorarle. Per questo non accetterebbe mai la massima vox populi, vox Dei. E rifiuta le decisioni irreversibili, perché non ammettono di essere migliorate.
Affinché la democrazia critica si renda possibile occorre in concreto che il popolo decidente assuma caratteristiche opposte a quelle della folla protagonista del processo a Gesù.
Primo: il popolo non sia usato. Il che significa combattere tutti i poteri separati, palesi o occulti, che possono rivolgersi alla folla come massa di manovra.
Secondo: occorre che la volontà popolare non sia assunta come definitiva, ma sia sempre sottoponibile a verifica, a controllo.
Terzo: la folla non deve essere sotto tutela, sobillabile, manipolabile, e quindi ondivaga e instabile. A questo fine occorre che sia capace di autoorganizzazione intorno a progetti politici.
Quarto: non deve trattarsi di una folla reagente ma agente, capace di iniziativa propria.
Quinto: bisogna garantire il diritto al dissenso, e quindi combattere ogni forma di omologazione.
Infine, la decisione popolare non può essere l'urlo immediato, senza dibattito. Essa deve seguire le sue procedure, in cui sia garantito il diritto di tutti di esprimersi, in un confronto di posizioni destinato a non terminare mai.
In questo senso, la visione critica della democrazia potrebbe essere interpretata, non tanto paradossalmente, dal silenzio di Gesù, inteso come l'atteggiamento di colui che è sempre disposto a riprendere il dialogo non appena gli altri gliene diano la possibilità.
La democrazia critica non è però la concezione più congeniale agli uomini della politica, o almeno a coloro che fanno della politica il loro mestiere. L'arena della politica di professione è quella del potere e delle ideologie. Oggi più del potere che delle ideologie. Quell'arena è occupata da coloro che della democrazia hanno una visione dogmatica o scettica. Chi siano costoro nell'Italia di oggi è da lasciare alle conclusioni di ciascuno di noi. Ma quello che si deve notare qui è che chi si impegna oggi in politica lo fa per uno di quei due fini. La democrazia è per costoro solo un mezzo.
Perché i cittadini non restino folla, dunque servono istituzioni. Le istituzioni classiche del popolo capace di azione politica sono i partiti. Essi conoscono oggi un tempo di crisi e non è detto che esistano le possibilità di superarlo. Ma che siano i partiti nelle loro forme conosciute, o possano essere altre forme d'integrazione sociale a fini politici, la democrazia critica, unica forma di democrazia non ridotta a strumento in mani aliene, di essi non può fare a meno.
L’istituzionalizzazione sociale della politica, come sempre quando si tratti di istituzioni, toglie necessariamente qualcosa alla spontaneità soggettiva e la costringe in una cornice obiettiva di lunga durata e di ampia portata. Comporta dunque sacrifici per i singoli. Ma queste rinunce sono la condizione affinché le energie individuali si indirizzino in una prospettiva costruttiva, non si insteriliscano in gesti dimostrativi, occasionali e irrazionali e, soprattutto, non cadano preda di coloro che le volessero utilizzare strumentalmente ai loro fini. L’attuale generalizzato sentimento contrario alla politica organizzata, l'appello ad una presunta naturale sapienza della gente comune che non supera la soglia dei giudizi e dei pregiudizi individuali, la tendenza a dare voce immediata in politica a umori prepolitici, superando d'un balzo ogni istanza organizzata intermedia, sentita come impaccio, diaframma e tradimento, sono tutti segni attuali dell'adulazione del popolo.
Abbasso le istituzioni, viva il popolo! Questo potrebbe essere il motto dei demagoghi del nostro tempo: un motto che è un'arma potente perché assume il linguaggio della democrazia e si rivolge, per travolgerlo, contro tutto ciò che parlamento, istanze e procedure di discussione, controllo e garanzia fa perder tempo e sembra disperdere e vanificare la forza che proviene dal popolo. Quando il popolo si è espresso si dice nessun intralcio è lecito. Tutte le altre autorità, comprese quelle deputate alla garanzia della legalità dell'azione di governo non hanno altra scelta che piegarsi o andarsene. Viene così messa in questione la complessa articolazione costituzionale, basata su istanze indipendenti di garanzia, bilanciamento e compensazione. Tali istanze, o rinunciano alla loro indipendenza, assecondando il movimento impresso dalla decisione popolare e negando così se medesime, oppure perdono quello che è il loro diritto costituzionale alla durata, affinché siano sempre sintonizzate alla volontà popolare. Scioglimento anticipato degli organi rappresentativi e dimissioni imposte in corso d'opera sono gli strumenti di questa perdita.
La democrazia critica non può accettare nulla di questo iperdemocraticismo.
Il popolo senza tempo dà luogo, con l'andar del tempo a una democrazia della massa indistinta e perciò totalitaria che, condannando coloro che non le sono conformi, si priva della critica e della facoltà autocritica, cioè della possibilità di emendarsi dai suoi propri errori.
Chi allora saprà far crescere una democrazia critica? La risposta è che forse tocca a coloro che non vivono di politica e sono interessati alla democrazia. Ad essi spetta il compito di tenere le mani su di essa. Perché occorre essere consapevoli che solo nella democrazia critica può valere ciò che Aristotele, rispetto alla sua politeia, rimproverava ad Alessandro il Macedone di non considerare. E cioè doversi garantire che la democrazia è quella forma di governo in cui tutti sono trattati come uomini, e non alcuni come uomini e altri come animali e piante, come oggetti da usare a piacimento. Il che vuol dire che la democrazia critica è quella forma di governo in cui gli uomini sono fini e non mezzi.
La difesa della democrazia come fine spetta perciò alla società civile, e non deve stupire che le libere forze intellettuali che essa produce siano per natura portate alla diffidenza nei confronti dei governanti. Di tutti i governanti di turno, perché in tutti esiste sempre la stessa vocazione latente all'opportunismo. E questo non è sabotaggio nei confronti del governo, ma è il compito di ogni cittadino. Infine, la democrazia critica ci obbliga a rivedere continuamente le nostre scelte, a impedire che le decisioni sbagliate come quella evocata in queste pagine diventino irrevocabili. E ci aiuta a non credere di vivere in una repubblica di angeli che contemplano la verità, a non cadere ancora una volta nella trappola del serpente tentatore, che prometteva la conoscenza, una volta per tutte, del bene e del male. D'altra parte, però, ci impedisce di cadere nel nichilismo della repubblica dei demoni, di coloro che non credono in nulla. Non è forse tutto ciò che desidereremmo, ma è già qualcosa. Ed è probabilmente il massimo che nella sfera politica possiamo desiderare.
Consideriamo ancora per un momento il processo di Gesù: quella folla era esattamente così come si è detto ora. Essa condannava Gesù per bestemmia, non volendo essere indotta ad aprire gli occhi su se stessa. Gesù, a sua volta, tentava l'operazione opposta con l'eloquenza del suo silenzio tenuto fino alla fine, cioè fino alla croce.
Potremmo chiederci allora chi, in quella scena, occupasse la parte del vero amico della democrazia. Hans Kelsen rispondeva: Pilato. Questa ricostruzione dice piuttosto: Gesù. Egli era interamente preso dalla sua Verità. Ma non per questo ha cercato d'imporla. Il suo tentativo silenzioso e «fino alla fine» di allacciare un dialogo dimostra la compatibilità tra la fede e la democrazia, a condizione che ciò che appare costringente e categorico nel proprio foro interno diventi una proposta nella dimensione collettiva, nella quale in democrazia non c'è posto per Verità assolute ma per opinioni che si confrontano.
La morte di Gesù suona per noi certamente come una condanna della democrazia, ma di quella «democrazia» che prevalse allora, dogmatica e scettica, la «democrazia» del Sinedrio e di Pilato. Della democrazia critica tentata, se si vuole pensare così, da Gesù silente fu non la condanna ma una sconfitta: una sconfitta (di nuovo contro Kelsen) che ancora oggi ha molto da dire per evitare che possa ripetersi.
Sì, un falso Messia, perché per gli ebrei il termine Messia vuol dire Re.
J. Au Clamos, 12 dicembre 2014
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Quale significato aggiungere alla parola DEMOCRAZIA dopo la stupenda esposizione?
Si può aggiungere quello di Democrazia biblica? Ci provo.
Ha senso parlare di democrazia biblica? La democrazia è tutt’altro che perfetta: “Nessuno pretende che la democrazia sia perfetta o onnisciente. Anzi, è stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre forme che sono state sperimentate di tanto in tanto”.
Gran parte della Bibbia è stata scritta prima che fosse coniato il termine “democrazia”, il potere o governo (kratos) del popolo (demos, allora rappresentato da alcuni uomini liberi) era un concetto greco classico risalente al V sec. a.C., non un concetto ebraico o aramaico e nemmeno romano imperiale.
Inoltre, ha senso parlare di democrazia biblica, se si giudica la politica di una chiesa dal modo in cui essa si autogoverna? L’ecclesiologia nella tradizione si fonda sulla lettura di un detto di Gesù che suona così: “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa” (Mt 16:18), ma cinque versetti più avanti Gesù apostrofa il medesimo apostolo in questo modo: “Vattene via da me, Satana!” (Mt 16:23), perché aveva provato ad impedire la crocifissione.
Ciononostante credo che non si tratti di un’impresa disperata. La Bibbia ha molte cose da dirci a proposito della legge del popolo e della legge di Dio. Il potere – così come la conoscenza – non è di per sé né buono né cattivo, ma è un elemento dinamico che dipende dalla relazione e deriva tanto dai margini quanto dal dominante. Ciò che conta è come esso viene esercitato. Nei numerosi libri della Bibbia c’è una costante tensione tra la libertà dell’Esodo e l’ordine della legge stabilita da Dio: “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5:29) o sottometterci alle autorità stabilite da Dio (Rm 13:1)?
Credo non serva porre un’opposizione tra forma di governo e Stato, separando teocrazia e democrazia. Ma è utile pensare a come la legge di Dio, il regno di Cristo, sia differente dal nostro, perché ci indica ciò che possiamo diventare, come Dio vuole che noi siamo, insieme, e come dobbiamo usare il nostro potere. La Bibbia di certo ha delle storie da raccontare su questo.
Come è fatto il regno di Dio? Prendiamo solo un’immagine: la legge di Dio è come un albero di senape. “Esso è il più piccolo di tutti i semi, ma, quand’è cresciuto, è maggiore degli ortaggi e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a ripararsi tra i suoi rami” (Mt 13:31-32). Gesù gioca con il simbolo dell’albero che offre riparo e protezione, che rappresenta la legge regale e divina in tutta la Bibbia ebraica. Eppure egli lo modifica, poiché questo albero inizia da un’origine umile, ma poi cresce rapidamente fino ad accogliere tutti. La storia di chi siamo e come ci poniamo in relazione con la comunità inizia con la nostra auto-esclusione dall’Albero della Vita nel cuore dell’Eden, perché abbiamo abusato dell’albero della conoscenza (Gn 1: 3). La nostra storia finisce con l’Albero della Vita ristabilito per la guarigione delle nazioni: “Ecco, io verrò presto e porterò con me il mio salario, per rendere a ciascuno secondo le sue opere”. (Ap 22: 2).
La Bibbia ebraica paragona il buon governo all’albero che offre riparo e sostegno. Così è la pace e la protezione di un re saggio, forte e fedele. Come al tempo di Salomone (1 Re 4: 25), così anche in futuro ciascuno potrà sedersi “sotto la sua vite e sotto il suo fico, senza che nessuno li spaventi” (Mic 4: 4).
Eppure la Bibbia ebraica mette in chiaro anche i danni derivanti dal mettere troppo potere nelle mani di una sola persona. Piuttosto che un re, non sarebbe meglio avere una giudice come Debora, seduta sotto la sua palma a distribuire giustizia a tutta Israele? (Gdc 4: 4-5) Se un governante non è scelto in buona fede e non dà egli stesso frutto, può sollevarsi e distruggere ogni cosa. Vale la pena citare questa allegoria per esteso:
Un giorno, gli alberi si misero in cammino per ungere un re che regnasse su di loro, e dissero all’ulivo: “Regna tu su di noi”. Ma l’ulivo rispose loro: “E io dovrei rinunciare al mio olio che Dio e gli uomini onorano in me, per andare ad agitarmi al di sopra degli alberi?” Allora gli alberi dissero al fico: “Vieni tu a regnare su di noi”. Ma il fico rispose loro: “E io dovrei rinunciare alla mia dolcezza e al mio frutto squisito, per andare ad agitarmi al di sopra degli alberi?” Poi gli alberi dissero alla vite: “Vieni tu a regnare su di noi”. Ma la vite rispose loro: “E io dovrei rinunciare al mio vino che rallegra Dio e gli uomini, per andare ad agitarmi al di sopra degli alberi?” Allora tutti gli alberi dissero al pruno: “Vieni tu a regnare su di noi”. Il pruno rispose agli alberi: “Se è proprio in buona fede che volete ungermi re per regnare su di voi, venite a rifugiarvi sotto la mia ombra, se no, esca un fuoco dal pruno, e divori i cedri del Libano!” (Gdc 9: 8-15).
Sembra che il ruolo di governante sia ricoperto da chi non può rendersi utile in nessun altro modo. Poiché un pruno non può produrre onore, dolcezza né allegrezza, ma solo ombra o fuoco, tanto vale che governi.
Questo credo sia il modello democratico applicato alla nostra società.
Il potere di governare deriva da Dio e può essere sottratto a chiunque non riconosca questo fatto, così come accadde ad Adamo ed Eva.
Nel regno di Dio produttività e fedeltà sono intrecciate. Gesù descrive se stesso con l’immagine della vera vite: Io sono la vite, voi siete i tralci. Colui che dimora in me e nel quale io dimoro, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. […] Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi. Nessuno ha amore più grande di quello di dar la sua vita per i suoi amici. Voi siete miei amici, se fate le cose che io vi comando. Io non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone, ma vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto conoscere tutte le cose che ho udite dal Padre mio (Gv 15: 5,12-15).
Il regno di Cristo, dunque, è basato sull’equità e la relazione reciproca. Non è un albero alto che adombra un popolo timoroso, ma una vigna che cresce di lato e in cui ogni parte è connessa con le altre. Non è un luogo per padroni e servi, ma per amici. Inizia a produrre frutti tra di noi quando seguiamo il grande comandamento di amare Dio e di amarci gli uni gli altri. Ciò risuona anche nel Cantico dei Cantici, nelle immagini degli amanti che si descrivono reciprocamente come vigna, melo, fico e palma (Cant 2: 3,13, 7:7-8).
Da noi questa uguaglianza dei componenti dello Stato di fronte alle leggi e alle istituzioni non mi pare esista.
Se le vie del Signore sono tanto più alte delle nostre vie, noi dobbiamo sempre sforzarci di trovare la volontà di Dio, di sapere che c’è qualcosa di più grande di noi stessi, che il nostro potere non è assoluto e la nostra conoscenza ha dei limiti, che tutte le nostre azioni hanno conseguenze sulle altre persone e sull’ambiente che ci circonda, poiché ogni cosa è connessa. Cristo, la Vite ci invita nella Trinità per conoscere Dio come amici, quando amiamo Dio e ci amiamo gli uni gli altri, nell’Eden non eravamo ancora pronti. Questo è un punto di partenza come un altro per una politica etica, per la vita umana in comunità sulla terra.
Da qui la possibilità di poter esercitare un’attività di controllo sui nostri governanti.
La visione del bene comune è il fondamento della dottrina sociale cattolica: “Saggiamente avverte san Tommaso: Siccome la parte e il tutto fanno in certo modo una sola cosa, così ciò che è del tutto è in qualche maniera della parte”. Questo tentativo di “realizzare le facoltà di base degli esseri umani per un’interazione e una relazione positiva” è “necessario e urgente in un mondo che è al tempo stesso sempre più interdipendente e sempre meno sicuro che una vita comune sia possibile”.
Ciò basterebbe a fare svolgere alla politica la sua funzione di ricerca del bene collettivo come l’archetipo democratico suggerirebbe.
L’immagine di Dio come un sostegno amorevole, Albero della Vita e Vera Vite, ci fornisce degli ideali cui mirare per rendere la terra un luogo migliore in cui vivere insieme adesso, mentre ci impegniamo per l’arrivo della legge di Dio. L’immagine del regno di Dio come un albero di senape è così affascinante perché è un albero piccolo, comune e molto ordinario, ma ha un enorme potenziale di vita. Non abbiamo scuse per non cominciare. San Pedro Poveda ce lo ricorda col suo dire: “Adesso comincio”.
Mi domando: la democrazia nella Chiesa è possibile?
La Chiesa non può essere democratica. Nel senso che dev’essere molto più che democratica. Una vera comunità di persone. Ispirata al servizio, all’ascolto, al pieno coinvolgimento dei suoi membri.
Quindi, se per salvaguardarne lo specifico religioso si preferisse evitare la parola “democrazia” come categoria politica, sarà necessario però salvaguardarne il contenuto fondamentale: se non democrazia, allora molto più che democrazia, cioè far sì che prevalga uno stile ancora più “democratico”, più libero, ugualitario, partecipativo e antiautoritario. Papa Francesco ce ne dà l’esempio ogni giorno.
Lo stesso bisogna dire del simbolo, quale è il “popolo di Dio”, che non può essere ribassato o escluso per insistere solo su quelli di “mistero”, “sacramento” o “Corpo di Cristo”. Non si tratta di negare il loro valore perché esprimono bene aspetti quali l’intima comunione o l’iniziativa divina. Ci sono, però, altri aspetti, quali la responsabilità, la libertà o l’uguaglianza che si avvertono più chiaramente nel simbolo del “popolo”. Quel popolo che amando il Cristo nostro Salvatore potrebbe vivere e godere della Vera Democrazia, della quale Lui ce ne ha dato l’esempio.
Pino Macaluso, 12 dicembre 2014
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